venerdì 28 gennaio 2011

"Quel gusto della vanità chiamato autoritratto" di Stefano Bucci dal Corriere della Sera

MILANO - C'è chi, come David Hockney, si è immaginato insieme al suo modello, nientedimeno che Picasso. C'è chi, come Norman Rockwell, con un occhio al grande Vermeer, se ne è fatto addirittura uno «triplo». C'è chi come Michelangelo si è trasformato in un pezzo di pelle sbattuto sulla volta della Cappella Sistina. C'è chi come Magritte è diventato soltanto una sagoma astratta con dentro alberi, case, luna e stelle. C'è chi come Lucio Fontana o Marcel Duchamp si è voluto addirittura annullare in un semplice autografo (rosso o nero a seconda del pennello). La vanità non è che uno dei tanti vizi dell'artista. Un vizio capace di spingere Botticelli e Dürer, Tiziano e Ingres, Friedrich e Gainsborough, Modigliani e Perugino, Clemente e Dix, La Tour e Leonardo ad autocelebrarsi, su tela o su tavola, con un tocco di ironia (Gauguin) o con estrema serietà (Mengs). Un vizio, assai frequentato e apprezzato, chiamato autoritratto (una categoria di opere abbondantemente rappresentata nella nuova iniziativa del Corriere dedicata ai «Classici dell'arte»).

«L'ARDIRE DI FIDIA» - Tutto sembra essere cominciato molto lontano, ai tempi degli Antichi Greci, quando nientedimeno che Plutarco aveva denunciato «l'ardire di Fidia» che si era rappresentato, con le proprie fattezze, tra i personaggi della «Battaglia delle Amazzoni» sullo scudo scolpito di Atena Promachos nel Partenone, scorgendo in questa autocelebrazione un ingiustificabile peccato di virtuosismo tecnico. Ma se l'arte è sicuramente cambiata non altrettanto si può dire dell'«idea» di autoritratto che continua ad essere ancora oggi (tecnicamente) «un'opera ritrattistica che l'artista esegue di se stesso» in cui «l'artista spesso si ritrae di tre quarti con gli occhi in posizione obliqua, in quanto il ritratto solitamente viene eseguito di fronte ad uno specchio».

GLI ENIGMI - Non è, però, tutto così semplice. Perché a volte l'autoritratto (vero o mascherato) finisce per trasformarsi in una sorta di enigma degno della «Settimana Enigmistica». Quando, ad esempio, il pittore non sceglie più l'«autorappresentazione» (fra i più esibizionisti ci sono Rembrandt con oltre cinquanta autoritratti e Dürer che trasformerà queste sue opere in una sorta di diario figurato della propria carriera). Preferendo invece identificarsi in una figura (spesso marginale e secondaria in un ben più esteso affresco) solo parzialmente «identificabili» con quella dell'autore. Ecco dunque che nel «Trittico» della «Tentazione di Sant'Antonio» si nasconderebbe, sia pure in un angolo remoto del pannello sinistro, l'autoritratto di Hieronymus Bosch; nell'affresco della Cappella Brancacci si ritroverebbe invece quello di Masaccio; nel «Sermone di Giovanni Battista» quello di Bruegel il vecchio mentre in un angolo del «Martirio di San Matteo» ci sarebbe quello del Caravaggio e nell'«Adorazione dei Magi» quello del Botticelli.

ESALTAZIONE... - A lungo l'autoritratto si è limitato ad essere quasi una semplice esaltazione del mestiere dell'artista. Come accade per Velázquez nelle «Meninas» o per Vermeer che nel suo «Studio del pittore» (dove l'artista compare vezzosamente di spalle diventando così il modello per il triplo ritratto di Rockwell ma anche per quello di Lartigue). O a riportare l'immagine tranquilla e rassicurante dell'artista dinanzi al cavalletto (come nel caso di Chardin). Ma poi sono arrivate le prime variazioni «sarcastiche» e «aberranti» (la teste mozze di Oloferne di Allori), le fantasie macabre di Géricault, il nudo quasi hard di Schiele. Anche se da questo paradigma di stili e temperamenti finiranno per rimanere grandi escluse le donne (a parte forse la Kaufmann e Rosalba Carrera), a cui ha parzialmente reso giustizia la mostra «Autoritratti in rosa» aperta fino a domenica agli Uffizi.

... E PRESA DI COSCIENZA - Oggi sembra invece ormai prevalere l'idea di un autoritratto come «presa di coscienza e consapevolezza». E, se è vero che agli antichi maestri piaceva molto nascondersi tra tante altre figure, altrettanto vero è che l'artista si è da tempo deciso a mettersi in primo piano. Da Modigliani che vorrà ad esempio dipingersi tutto (o quasi) in giallo a Picasso (vanitosissimo e grande frequentatore di autoritratti in forma di quadro ma anche di autoscatti); dal cinese emergente Yang Shaobin che diventerà nel suo «Number 3» un mostro dall'enorme testa a Ligabue (due occhi allucinati su uno sfondo marrone); da Bacon che deciderà di perdere quasi ogni connotato umano a Gérard Fromenger (solo una sagoma rossa con in mano «Libération»). Mentre Warhol vorrà avere accanto a se, o meglio addirittura sulla propria testa, niente di più che un teschio. 
Stefano Bucci

Una donna e il suo smalto rosso















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"L'amore è quello che resta del fuoco quando l'innamoramento si è consumato"

Quando si accende, l'amore è una pazzia temporanea.
L'amore scoppia come un terremoto e in seguito si placa
e quando si è placato bisogna prendere una decisione, 
bisogna riuscire a capire se le nostre radici sono così inestricabilmente intrecciate, che è inconcepibile il solo pensiero di separarle [...].
L'amore non è turbamento, non è eccitazione, non è restare sveglia la notte 
immaginando che lui sia lì a baciare tutte le parti del tuo corpo [...]. Questo è 
semplicemente essere innamorati e chiunque può facilmente convincersi di esserlo. 
L'amore invece è quello che resta del fuoco, quando l'innamoramento si è 
consumato... non sembra una cosa molto eccitante vero? invece lo è... 

dal film d'amore "Il mandolino del Capitan Corelli"